IL MIO ANGELO A QUATTRO ZAMPE

Avevo nove anni quando ho incontrato il mio primo angelo a quattro zampe. Era bellissima, incredibile, e tutta mia. Il suo pelo rosso fiammante scintillava sotto il sole estivo , soprattutto quando era ben strigliata o appena lavata. Nei suoi grandi occhi marroni c’erano la saggezza e la benevolenza di chi ha vissuto a lungo e bene, seppur con il proprio carico di prove e tribolazioni. La sua fronte ampia era il posto perfetto su cui appoggiare la guancia. Più di ogni altra cosa al mondo amavo andare nel suo posto, caratterizzato da spontaneità e tranquillità. La vita laggiù aveva un ritmo e una cadenza tutti i suoi. Era semplice, lineare, e aveva senso. Il silenzio dava conforto, non rendeva nervosi. Esso denotava pace e tranquillità e, di fatto, era proprio ciò che appariva, ben diverso dal silenzio tesissimo da cui cercavo scampo. Tuttora l’odore di un fienile, una stanza dei finimenti, una stanza del fieno, la polvere che danza nella luce solare al suono dei passeri che fanno il nido sui travetti… Tutto ciò mi ispira un grandissimo senso di pace, che raramente mi capita di provare altrove. Nata nel focoso segno dell’ariete, ero troppo orgogliosa per mostrare dolore e chiedere le attenzioni a cui disperatamente anelavo. Senza nessun’altra possibilità di esprimere i sentimenti che volevo e sentivo il bisogno di donare, occuparmi di lei nel modo necessario a un cavallo fu un autentico dono, benché all’epoca non me ne rendessi conto. Pulire la scuderia, strigliare la cavalla, preparare il pastone nelle fredde notti invernali mischiando acqua calda, carote e melassa, assicurarmi che la coperta fosse a posto, la scuderia pulita e i finimenti ben tesi, tutto ciò mi permise di imparare una delle lezioni più importanti che si possano apprendere: dare significa ricevere. Grazie al suo esempio, imparai a esprimere e ricevere amore incondizionato. Lei mi dimostrò che a volte le parti migliori di noi sono mute, non hanno bisogno di parole, date o ricevute. Quando andavo a cavallo si mettevano in sintonia mente, corpo e anima. Non avevo semplicemente voglia di cavalcare: avevo bisogno di farlo. In tutti gli anni trascorsi insieme, ho imparato molto sull’equitazione e ancor più sulla vita. Quanto mi sarebbe piaciuto avere allora la consapevolezza che ho oggi! Quando andavamo in giro insieme, raramente usavamo una sella: bastava un piccolo cuscino imbottito a pelo o una coperta indiana, ed eravamo pronte per andarcene a spasso. Il clop-clop dei suoi zoccoli mentre galoppavamo e il lieve dondolio che si impadroniva del mio corpo mentre lei andava erano balsamici e favorivano la meditazione. In groppa a lei avrei potuto essere chiunque, ovunque.
Lei mi insegnò la legge di causa ed effetto. Imparai ben presto che quando vai a cavallo, se non agisci in modo responsabile e non presti attenzione (causa), puoi farti male, rischi di essere calpestato o magari di finire per terra (effetto). Nel corso degli anni, ho scoperto che questa lezione vale anche in altri ambiti della vita. Lei mi insegnò la pazienza. Sapeva che il suo carico, talora testardo, imparava meglio dall’esperienza e mai una volta mi abbandonò dopo che ero caduta per terra e avevo bisogno di un minuto o due per riprendere fiato. Si fermava, si voltava verso il punto in cui mi trovavo. Tenendo la testa abbassata sul mio petto, aspettava pazientemente. Lei mi insegnò la tolleranza. Senza mai serbare rancore, con uno sguardo che la sapeva lunga, aspettava che passassero gli effetti della causa, in modo che potessimo rimetterci in marcia. Mi insegnò la fedeltà in un periodo in cui, pur essendo libera di vagare nell’ettero di terra in cui vivevamo, scelse di restare e appisolata sotto la finestra della mia stanza da letto. Mi insegnò la fiducia ovvero come fidarsi degli altri in base alle loro azioni, al linguaggio del corpo, e di me stessa in base a ciò che sentivo nell’animo. A volte, nel cuore della notte, quando non riuscivo a dormire, mi intrufolavo silenziosamente nella scuderia. Lei si trovava più o meno a metà dell’edificio e, dopo un “ciao” a bassa voce per farle capire che ero io, si tranquillizzava e rimaneva dov’era. Mi sdraiavo accanto a lei e mi raggomitolavo alla base del collo, caldo e rassicurante. Il buon senso e l’addestramento mi dicevano che non mi sarei mai dovuta mettere alla portata diretta degli zoccoli di un cavallo, ma l’intuito mi diceva che ero al sicuro. I suoi zoccoli non mi avrebbero fatto del male e lei mi avvertiva sempre quando stava per alzarsi. Mi insegnò il perdono e cosa significa amare qualcuno per le sue fragilità e i suoi difetti. Mi voleva bene quando ero di pessimo umore e la mia anima ribolliva. Mi perdonò quando la feci correre troppo a lungo e con troppa intensità, sfuggendo al demone da cui, in effetti, sarei dovuta scappare da sola. Abbiamo corso insieme, entrambe quasi a livello del terreno. Lei che correva a tutta birra con la criniera e la coda che schioccavano nel vento. La forza dei suoi muscoli era fenomenale. Alla fine rallentava fino a fermarci. Lei mi traghettava da periodi di cieco terrore a luoghi di placida solitudine, che lenivano il dolore di cui la mia mente conscia e era a malapena consapevole. Entrambe senza fiato, ci riposavamo una accanto all’altro sotto un albero, sulla cima di un monte, vicino ad una sorgente, ovunque ci portasse il viaggio in quel particolare giorno. Lei è stata un balsamo lenitivo su una bolla di pus, provocata dal tradimento, che avrebbe impiegato 20 lunghi anni a scoppiare. In quelle lunghe notti mi intrufolavo nella scuderia e mi sdraiava accanto a lei. Lei sapeva istintivamente che avevo bisogno del suo collo morbido su cui piangere. Sembrava capire l’effetto curativo della sua testa appoggiata dolcemente sulla mia schiena e il balsamo del caldo respiro emesso dalle sue narici sulla mia pelle fredda. Nessun altro vedeva le sue ali, ma io sì. Da un certo punto di vista sapevo, allora come adesso, che mentre tutti gli angeli di Dio hanno le ali, non tutti hanno solo due gambe. In effetti, alcuni dei migliori angeli di Dio ne hanno quattro.