La morte non esiste
Vorrei raccontare come io, che non sono niente, ho trovato la mia strada nella vita, come ho imparato quello che voglio condividere con voi e come anche voi potete convincervi che questa vita, questo periodo di tempo che si trascorre nel nostro corpo fisico, è solo un tratto brevissimo della nostra esistenza globale.
È anche un periodo importante della nostra esistenza poiché siamo qui per uno scopo che è nostro e soltanto nostro. Se viviamo bene non dovremmo mai preoccuparci della morte, anche se si vive solo un giorno. La questione tempo non è importante, è solo un concetto artificiale, creato dall’uomo. Vivere bene significa soprattutto imparare ad amare. Oggi vi parlerò dell’amore. Che è vita e morte; è tutto la stessa cosa.
Io fui una bambina non desiderata. Non che i miei genitori non volessero figli, anzi desideravano tanto la bambina, bella e graziosa. Non si aspettavano tre gemelle, e quando nacqui io ero brutta e pesavo solo un chilo. Ero pelata e fui una terribile delusione. Un quarto d’ora dopo nacque la seconda, e dopo 20 minuti una bimba che pesava tre chili e mezzo, e loro ne furono felici, ma avrebbero voluto restituirne due.
Credo che nella vita non esistano coincidenze. Per tutta la vita ho avuto la sensazione di dover dimostrare che anche una cosina che pesa solo due chili ha il diritto di vivere. Perciò ho lavorato molto, come alcuni ciechi che pensano di poter conservare il loro posto solo se lavorano 10 volte più degli altri. Quando ero adolescente, alla fine della guerra, sentì il bisogno di fare qualcosa per questo mondo così sconvolto. Mi ero ripromessa che, se quando la guerra fosse finita, sarei andato in Polonia per dedicarmi al pronto soccorso e alle necessità più impellenti. Mantenni la promessa ed è così, che è cominciato questo mio lavoro sulla morte e il morire che all’età che io avevo allora, l’età di un adolescente, non si può mai essere gli stessi. Poiché ciò che si è visto è l’inumanità dell’uomo, e si capisce che ciascuno di noi può diventare un mostro nazista.
Bisogna prendere atto di questa parte di noi. Però ciascuno di noi può anche diventare una madre Teresa, e certo sapete chi è. Per me è una Santa che in India raccoglie bambini morenti, gente che muore di fame, e crede fermamente che anche se una volta fra le sue braccia muoiono, anche se ha potuto amarli solo per pochi minuti, per loro è valsa la pena di vivere. È un essere umano meraviglioso che mi auguro abbiate occasione di incontrare. Io ho avuto questa fortuna.
Quando sono venuta in questo paese, dopo essere stata medico di campagna in Svizzera, attività che mi ha reso felice, mi ero preparata ad andare in India a fare il medico. Ma due settimane prima della partenza mi informarono che il progetto era caduto, così, invece delle giungle indiane finì per trovare le giungle di New York, perché ho sposato un americano che mi ha portato nel luogo che figurava all’ultimo posto della lista dei luoghi in cui avrei voluto vivere.
Nemmeno questa fu una coincidenza, perché è facile andare in un luogo che si ama, ma è veramente duro andare in un luogo che si detesta. Si ha così l’opportunità di vedere se è veramente detestabile. Finii nell’ospedale statale di Manhattan, che è un altro luogo spaventoso. Non essendo ferrata in psichiatria, sentendomi sola e infelice e non volendo rendere infelice mio marito, mi confidai con i pazienti. Mi immedesimai nella loro sofferenza e nella loro solitudine e disperazione, e all’improvviso i miei pazienti cominciarono a parlare, perfino gente che non parlava da vent’anni. Cominciarono ad esprimersi, a mettermi a parte dei loro sentimenti, e improvvisamente mi resi conto che non ero sola nella mia infelicità.
E trovai meno deprimente lavorare in un ospedale statale. Per due anni non feci altro che vivere lavorare con questi pazienti, anche a Natale e a Pasqua, solo per condividere la loro solitudine. Dopo due anni il 94% di quei pazienti furono dimessi, autosufficienti, a New York, molti di loro in buona forma e con un loro lavoro.
Quello che sto tentando di dirvi è che la conoscenza è utile, ma la sola conoscenza non è in grado di aiutare nessuno. Senza usare la testa, il cuore e l’anima non si può aiutare nessuno. Questo mi hanno insegnato i cosiddetti pazienti inguaribili, gli schizofrenici, i malati di mente. Nel mio lavoro con i pazienti, fossero schizofrenici cronici, bambini gravemente ritardati o moribondi ho capito che ognuno di loro ha uno scopo: non solo può imparare ed essere aiutato, ma può in effetti diventare insegnante. Questo è vero anche per i bambini ritardati di sei mesi che non sono in grado di parlare; è vero anche per gli schizofrenici incurabili che a un primo sguardo sembrano comportarsi come animali.
Ma gli insegnanti migliori sono i moribondi. I moribondi, quando dedicate loro un po’ del vostro tempo, vi insegnano gli stadi del morire. Vi insegnano come si superano le fasi del rifiuto, dell’ira, del “perché proprio io?”. I morenti discutono Dio e lo respingono per un poco; contrattano con lui, poi attraversano depressioni terribili, e possono poi arrivare ad accettare, se hanno accanto qualcuno che li ama. Ma questo non è tipico del morire, in realtà non ha nulla a che fare col morire. Diciamo “stadi del morire” perché non troviamo parole migliori. Se si perde il fidanzato la fidanzata, o se si perde il lavoro o se si è mandati via dalla casa dove si vive da cinquant’anni per essere ricoverati in un ospizio, alcuni anche se perdono il loro pappagallino, tutti costoro passano attraverso gli stessi stadi del morire.
Questo, credo, è il significato della sofferenza. La maggior parte delle persone considera le difficoltà, le prove e le tribolazioni della vita, gli incubi e la perdita di persone care, come un castigo di Dio, come qualcosa di negativo. Se solo ci si potesse convincere che niente di quello che ci accade è negativo, niente assolutamente! Tutte le prove e le tribolazioni, tutte le perdite, anche le più gravi, anche quelle che vi fanno dire “se l’avessi saputo non sarei mai stato capace di affrontarlo”, sono in realtà doni. E’ come temprare l’acciaio. È un’opportunità di crescere che ci viene offerta.
Questo è l’unico scopo della nostra esistenza sul pianeta terra. Non si cresce se si sta in un bel giardino fiorito dove ci servono dell’ottimo cibo su un piatto d’argento. Si cresce se si è malati se si soffre se si subiscono delle perdite, se non si nasconde il capo sotto la sabbia, ma si impara ad accettare il dolore, non come una punizione, ma come un dono che ha uno scopo ben preciso.
Dopo aver lavorato per molti anni con malati morenti e dopo aver imparato da loro che cosa è realmente la vita, quali sono i rimpianti che si hanno quando sembra ormai troppo tardi per averne, cominciai a chiedermi che cos’è realmente la morte. Nel mio gruppo una certa signora Schwartz fu la prima paziente che ci fece il resoconto di un’esperienza extracorporea dopo una nde.
Questo ci indusse a raccogliere esperienze analoghe in tutto il mondo. Ora ne abbiamo centinaia dall’Australia alla California. Tutti hanno lo stesso denominatore comune. Sono tutti consci di disfarsi del proprio corpo fisico.
E la morte, così come la intendiamo noi nel linguaggio scientifico, non esiste realmente. Morire significa solo perdere il proprio corpo fisico come la farfalla esce dal bozzolo. È una transizione a un piu alto stadio di coscienza in cui si continua a percepire, a ridere, a capire, a crescere, e in cui l’unica cosa che si perde è qualcosa di cui non si ha più bisogno, il nostro corpo fisico!
È come smettere il cappotto invernale all’arrivo della primavera, sapendo che quel cappotto è troppo logoro per indossarlo ancora. La morte praticamente è questa. Nessuno dei pazienti che ha avuto questa esperienza ha mai piu avuto paura di morire. Nemmeno uno.
Molti dei nostri pazienti dissero anche che oltre alla sensazione di pace che tutti ebbero e oltre alla sicurezza di vedere senza essere visti, essi provarono anche una sensazione di completezza: ad esempio chi era stato investito da un’automobile e aveva perso una gamba sulla strada, una volta uscito dal corpo fisico le aveva entrambe al loro posto. Una delle nostre pazienti perse la vista in un’esplosione in laboratorio, e appena uscì dal suo corpo riuscì a vedere e potè descrivere l’incidente e la gente che si era precipitata nel laboratorio. Quando fu riportata in vita era di nuovo completamente cieca.
Forse la parte più impressionante del mio lavoro, è aver a che fare con bambini moribondi. Ora quasi tutti i miei pazienti sono bambini. Li porto a casa morire. Preparo le famiglie ad accoglierli, perché voglio che essi muoiano in casa. La più grande paura dei bambini è essere soli, non aver nessuno con loro. Nel momento del trapasso non si è mai soli, anche se non lo sappiamo, perché in quel momento le nostre guide, i nostri angeli custodi saranno là per aiutarci. Abbiamo verificato questo fatto al di là di ogni dubbio e lo affermo come scienziata. Ci sarà sempre qualcuno ad aiutarci nel trapasso, il più delle volte si tratterà dei genitori o dei nonni, o di un bambino, se ne abbiamo perso uno. A volte si tratta di persone che nemmeno sapevamo che erano già morte.
Abbiamo avuto il caso di una bambina di 12 anni che non voleva raccontare alla madre che bella esperienza fosse morire, perché nessuna madre vuol sentirsi dire dalla sua bambina che esistono luoghi più belli della propria casa, ed è anche comprensibile. Ma questa bambina aveva avuto un’esperienza così unica che voleva farne parte a qualcuno e un giorno si confidò con suo papà. Gli disse che morire era stato così bello che non avrebbe voluto tornare indietro. La cosa più stupenda, oltre l’atmosfera di amore di luce, era il fatto che c’era suo fratello a sorreggerla con tenerezza e comprensione. Dopo aver raccontato tutto questo a suo padre, ella aggiunse: “L’unico problema è che io non ho un fratello”. Allora suo padre si mise a piangere, e confessò che c’era stato un fratello, ma che era morto prima che lei nascesse e non gliel’avevano mai detto.
Capite perché vi porto questi esempi? Perché molti dicono che questa gente in realtà non era morta, oppure che al momento di morire naturalmente si pensa ai propri cari e si finisce per vederle.
La bambina non poteva evocare un fratello di cui non conosceva l’esistenza. Molti dicono che si tratta di proiezione di desideri. Chi sta per morire è disperato, solo, spaventato, così immagina di aver qualcuno che ama accanto a sé. Se ciò fosse vero, il 99% dei miei bambini moribondi, che hanno dai cinque, 6,7 anni, vedrebbero le loro mamme o i loro papà. Ma nessuno di quei bambini, durante tutti gli anni in cui ho raccolto casi, vide la mamma o il papà in punto di morte, perché le mamme e papà erano ancora vivi.
Non ho finito di raccontare la storia della signora Schwartz. Voglio aggiungere che essa morì due settimane dopo che suo figlio ebbe finito la scuola. Era stata una delle mie moltissime pazienti e sono certa che l’avrei dimenticata se non fosse ritornata a farmi visita.
Circa 10 mesi dopo che era morta e sepolta, io ero un po’ preoccupata.
Sono sempre preoccupata ma quella volta era peggio del solito. Il mio seminario sulla morte di morire si stava deteriorando: il pastore col quale lavoravo se n’era andato; il nuovo pastore teneva molto l’impatto col pubblico e ricorreva spesso ai mass media. Ogni settimana dovevamo parlare delle stesse cose, perché il mio seminario era nel frattempo diventato quasi uno spettacolo famoso. Io però non intendevo affatto continuare a portarlo avanti. Era come prolungare la vita quando non vale più la pena di viverla. Non era quello che volevo e decisi che l’unico modo per smetterla era di andarmene dall’Università di Chicago. Mi si spezzava il cuore pensarci, perché amavo quel lavoro, ma non amavo farlo in quel modo. Così presi l’eroica decisione: “Lascerò
l’Università di Chicago oggi stesso, dopo il seminario sulla morte di morire ne darò la comunicazione”.
Il pastore e io avevamo una specie di rituale: dopo il’seminario andavamo all’ascensore e, aspettando che l’ascensore arrivasse, finivamo di parlare dei nostri affari. Poi lui se ne andava e io ritornavo nel mio ufficio che era allo stesso piano, in fondo a un lungo corridoio. Prima che arrivasse l’ascensore mi decisi di dire al pastore che me ne volevo andare, quando in quel momento una donna apparve davanti all’ascensore.
Io la fissai involontariamente. Non so dirvi che aspetto avesse, ma sapete di certo come ci si sente quando non si riesce a ricordare il nome di qualcuno che si sa di conoscere benissimo. Pensavo dentro me “ Conosco questa donna che mi sta fissando”,. Ero così impegnata a cercare di ricordare chi fosse la donna che mi dimenticai del pastore. La figura della donna era trasparente ma non abbastanza da permettermi di vedere bene dietro di lei. Chiesi al pastore chi fosse la donna, ma egli non rispose ed entrò nell’ascensore. Nell’attimo in cui lui entrò nell’ascensore, la donna venne direttamente verso di me e mi disse: “Dottoressa Ross dovevo ritornare. Le dispiace se vengo nel suo ufficio? Ci vorranno solo due minuti”. E siccome lei sapeva dov’era il mio ufficio e sapeva anche il mio nome, ero salva, non dovevo confessare che non sapevo chi era. È stato un momento difficile della mia carriera.
Sono una psichiatra, lavoro con gli schizofrenici e li amo. Ogni volta che i miei pazienti avevano allucinazioni visive, io dicevo loro: “So che lei vede la Madonna sul muro, ma io non la vedo”. Questa volta dovetti dire a me stessa: “Elizabeth, so che vedi questa donna, ma è impossibile”. Riuscite a mettervi al mio posto? Per tutto il tragitto dell’ascensore al mio ufficio continuai a chiedermi se quello che vedevo poteva essere vero. Mi dissi anche che ero stanca e che avevo bisogno di una vacanza. Ho visto troppi schizofrenici. Comincio ad avere delle visioni. Fu il tragitto più incredibile della mia vita, durante il quale non sapevo perché facevo quello che facevo. Ero allo stesso tempo una psichiatra e una paziente. Respinsi fortemente il pensiero che potesse veramente trattarsi della signora Schwartz, che era morta e sepolta da mesi.
Quando raggiungemmo la porta del mio ufficio lei mi aprì come se io fossi un ospite in casa mia. L’aprì con incredibile gentilezza, tenerezza e amore e disse: “Dottoressa Ross, dovevo ritornare per due motivi. Una ringraziare per quello che avete fatto per me. Ma il vero motivo per cui sono ritornata e per dirle di non sospendere questo lavoro sulla morte e il morire, non ancora”.
La guardai, e non so se pensai: “potrebbe essere la signora Schwartz”; voglio dire che quella donna era sepolta da 10 mesi e io non credevo che fosse una cosa possibile. Finalmente andai alla scrivania e toccai tutto quello che era reale. Toccai la penna, la scrivania, la sedia, sempre sperando che lei sparisse. Ma non sparì, stava la, e ripeté affettuosamente, ma caparbiamente: “Dottoressa Ross, mi sente? Il suo lavoro non è finito. Noi l’aiuteremo e le faremo sapere quando sarà il momento, ma non smetta adesso, lo prometta. Il suo vero lavoro è appena cominciato”.
Allora la scienziata che è in me me prevalse, e le dissi una grossa, astuta bugia: “Lei sa che il reverendo è in Urbana ora” (questo era vero, aveva rilevato una chiesa la). Dissi: “Gradirebbe avere due parole da lei. Le dispiace?”. E le diedi un pezzo di carta e una matita. In verità non avevo intenzione di mandar nulla al mio amico, ma mi occorreva una prova scientifica. In altre parole: chi è sepolto non può scrivere lettere. E questa donna, col più affettuoso dei sorrisi, poiché consapevole di quello che stavo pensando, e io sapevo che era trasmissione del pensiero come se l’avessi già sperimentata, prese la carta e scrisse la nota che naturalmente abbiamo messo in cornice sotto vetro e conserviamo come un tesoro. Poi disse, ma senza muovere le labbra: “Contenta ora?”.
La guardai e pensai: “Non potrò mai raccontarlo a nessuno”. Poi lei si alzò, pronta ad andarsene e ripeté: “Dottoressa Ross, prometta”. E intendeva che non dovevo sospendere il mio lavoro.
Dissi: “Prometto”. E appena ebbi promesso, scomparve.
Tempo dopo avrei scoperto che il lavoro sulla morte e il morire era solo una prova per me, per vedere se ero in grado di affrontare delle resistenze e dei contrasti, e avevo superato la prova.
La seconda prova era vedere se la fama mi dava alla testa. E siccome la fama non mi toccava, avevo superato anche quella.
Ma il mio vero compito è quello di dire alla gente che la morte non esiste. È importante che l’umanità lo sappia, perché siamo all’inizio di un’era molto difficile. Non solo per questo paese, ma per il pianeta intero.
*Elizabeth Kùbler Ross –La Morte E La Vita Dopo La Morte
*Nota*: Nel campo della ricerca sulla morte, la dottoressa Elizabeth Kùbler Ross si è meritatamente conquistata grande fama. Le innumerevoli ore trascorse accanto ai pazienti allo stadio terminale le consentirono di fare scoperte in seguito confermate da altri ricercatori, ormai patrimonio acquisito di questo campo di studio.
Elizabeth Kùbler Ross non esitò a mettere a repentaglio il suo buon nome di scienziata affermando ciò che le esperienze dei morenti le avevano insegnato: la morte in realtà non esiste, è un passaggio a un altro stadio di coscienza, in cui si continua a crescere psichicamente e spiritualmente.
Elizabeth Kùbler Ross psichiatra, ha svolto un lavoro pionieristico nel campo dell’assistenza ai malati terminali e della ricerca sulla morte e il morire. Per questi suoi lavori scientifici le sono state conferite da varie università lauree honoris causa.
Grazie al suo impegno e alla sua instancabile attività, l’assistenza ai morenti e la ricerca sulla morte sono divenuti di grande attualità.
Elizabeth Kùbler Ross 8 luglio 1926 Zurigo/ 24 agosto 2004 Scottsdale ,Stati Uniti
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