LA REINCARNAZIONE DA UN SIGNIFICATO AGLI EVENTI DRAMMATICI
Trovare il significato di un’esperienza drammatica attraverso l’ipnosi regressiva.
Di fronte alle stragi, alle violenze che coinvolgono soprattutto i più deboli, agli abusi sui bambini, alla sofferenza propria o altrui e ancor più di fronte alle tragedie dell’umanità, molti si chiedono come fa Dio a non intervenire e a permettere il dolore, il male. Ma Dio non è una persona che interagisce individualmente con noi, bensì è un Principio, una Legge, è Energia Universale che Tutto sorregge e Tutto compenetra. E il male non viene da Lui, che è Assoluto, ma è semplicemente l’altra faccia del bene, è l’ombra che non conosce ancora la Luce, è un aspetto della dualità che regola tutto il creato. Oppure possiamo anche dire che è la conseguenza dell’ignoranza, di un cattivo uso del libero arbitrio. Ma il dolore non è mai fine a se stesso, bensì è una componente del bene, è uno strumento di Dio per la nostra evoluzione.
Ecco un esperienza esplicativa di come si possa prendere coscienza del significato del dolore: Si tratta di Barbara, che pur non avendo mai vissuto esperienze drammatiche, durante l’adolescenza aveva la percezione di un dolore sordo e profondo, come se nell’inconscio si celasse un ricordo angoscioso, che l’ha spinta a vivere episodi prima di anoressia e poi di bulimia, alterando fasi di depressione profonda ad altre di esaltazione.
“Da ragazzina volevo morire. A volte mi chiudevo in casa, mi mettevo a letto in attesa di spegnermi, vegetavo e poi mi colpevolizzavo perché facevo soffrire i miei”.
“Questo nella vita attuale, ma prima?
“Sono nata in una società occidentale, in tempi non molto lontani”, esordisce una volta entrata in trance .
“Sono un’ebrea. Mi chiamo qualcosa come Eireen e mi trovo ad Auschwitz. Vedo un numero 347, tatuato con un punto accanto”.
“Torna più indietro nell’infanzia”.
“Sono nata in Germania in una buona famiglia, benestante, ma sull’orlo del collasso, so che perderemo tutto. Sento che fanno tutto loro, decidono tutto loro, la famiglia e il mondo. Ho quattro o cinque anni. Stiamo cambiando casa, dobbiamo andare via, non capisco perché, è una situazione più grande di me, non capisco”.
“Vai più avanti”.
“Ho 12 anni, ho un fratellino e una sorella minore di me, frequenta la scuola ebraica, credo a Dusseldorf. Vivo in una bella casa, ho una vita serena. Mio padre lavora con le banche, lo vedo poco. Se penso al mio cognome mi viene qualcosa come Fennel”.
“Vai più avanti, a un episodio significativo”.
“Dobbiamo partire: la mamma non è preoccupata, ma sento che il nostro viaggio non dipende da lei, ma da qualcosa più grande di noi, che viene dall’esterno. Ci sono dei treni, persone vestite umilmente. Sento molto il distacco sociale. Sento che c’è una cosa comune che chi manovra”.
“Che cosa succede?”.
“Mi trovo all’entrata di un grande caseggiato, con tante persone, c’è anche mia mamma che mi tiene per mano, tutti premono e io ho paura, anche perché sento che non siamo più noi a decidere per la nostra vita. Ci sono dei soldati armati di fucile che ci spingono a entrare. C’è un grande cancello e poi un grande spazio, sembra una caserma, ma credo di essere in un campo di concentramento… Siamo lontani dalla città. Siamo arrivati qui dopo un lungo viaggio sopra dei camion. Finalmente siamo arrivati: stanno dividendo gli uomini dalle donne. Ci selezionano e come temevo mi separano da mia madre. Ho tentato di convincermi che l’avrei rivista poco dopo, invece non ne ho saputo più niente. Mi hanno spogliata mi hanno dato qualcosa da metter addosso nelle baracche ci sono delle persone molto malandate. Quando entro mi sento come se non c’entrassi niente con loro, come se a me non toccasse quella fine, di diventare così debole.
Invece dovrò cambiare anche questa prospettiva. Mi vedo appoggiata a una specie di materasso e passo la maggior parte del mio tempo a guardare gli altri… sono talmente concentrata sugli altri che non mi accorgo del tempo che passa. Non parlo, ascolto, evito di parlare. E’ li che ho preso l’abitudine di guardare le persone, dimenticando le mie pene”.
Un’abitudine che le è rimasta anche in questa vita, come se fosse più facile, meno doloroso, vivere la vita degli altri, dimenticandosi di sé.
“Mi chiedo dove siano mio padre, i miei fratelli, mentre sento che mia madre è in un posto come il mio. Sono insieme a tre o quattro donne, molto conciate, c’è odore di morte”.
“Vai più avanti”.
“Sono cresciuta, ho 14 anni e sono qui da due o tre anni, sono magrissima, con i capelli corti, e sto sempre ferma ad osservare le miserie umane, ma in qualche modo sono privilegiata, perché riesco a stare meglio degli altri per quanto riguarda la salute. Ci sono vecchi che stanno malissimo. Tutto è sporco. Ci portano da mangiare degli scarti, una cosa liquida con del pane. Dalla finestra si vede una parte di questo posto, i soldati, che sono così freddi e distanti”.
Com’è la vita qui?”
“Non parlo più con nessuno, non è vedo il motivo, non c’è nulla da dire, guardo e basta. Non piango, non sento più niente. Vivo senza sentire il dolore. Ogni tanto ci portano a camminare, tutti in fila. Mi fanno impressione i militari con il cappotto grigio, si avverte il loro potere!
So di non poter far niente. E anche quando sento il pianto di un bambino, che però non vedo, non posso fare niente. C’è solo odore di morte”.
“Vai a un episodio significativo”.
“Sono stata portata in una stanza con le piastrelle chiare, fa molto freddo. Credo che sia una stanza dove si medicano le persone. Ci sono due o tre soldati, forse sono ufficiali: approfittano di me. È tutto molto odioso, non sopporto quei capelli chiari, sento un’estraneità incredibile con quelle persone, provo fastidio, disgusto e repulsione per i soldati tedeschi. Sono diversi da noi, tutti biondi, io non c’entro con quelle persone”.
“Sono violenti?”
È una violenza psicologica, la volontà di dominio totale. E io non reagisco, anche se provo molta rabbia. Sento un nodo alla gola, stanno approfittando di me senza provare una minima forma di amore. Forse mi offrono un vestito migliore, ma io rifiuto, non mi interessa niente, sono distaccata, sento solo di vorrei morire. L’unica cosa che mi fa sentire bene ogni tanto è la luce del sole”.
“Hai amiche, compagni?”
“No . Mi sento molto sola. Le donne sono tutte deboli, rovinate. Vivo osservando gli altri. Guardo i miei coetanei, non c’è nessuno che mi faccia sentire un legame umano di uguaglianza da condividere. Del resto io non faccio nessuno sforzo per andare verso gli altri: forse questo è il mio grande peccato, non mi sento simile a nessuno e non faccio niente per nessuno. Credo sia una colpa”.
“Vai più avanti”.
“C’è un’odiosa donna tedesca, bionda, grossa, che ci ha radunate e ci ha fatto spogliare, perché dobbiamo fare la doccia, per pulirci. Ci fanno entrare in queste docce, sembrano celle, ognuno di noi ne ha una per sé, dentro ci sono delle piastrelle celesti. E non c’è il minimo segno di umidità, ma non ci faccio proprio caso.
Non c’è neanche la luce. Chiudono le porte da fuori. Sono in attesa, provo a girare le manopole, ma girano a vuoto. E a un certo punto c’è uno schizzo violento di aria bianca, si sente il rumore del fischio e un odore che toglie il respiro. Provo ad aprire la porta, ma non c’è modo di uscire, di scappare. Mi metto le mani sul naso, ma non basta. Non c’è via di scampo: mi sono sentita tradita dal mondo, da quella donna che ci aveva ingannato con una scusa legata all’igiene. Non c’è più aria, mi sento mancare, ho paura. E casco giù, senza conoscenza”.
“E ora?”.
“Mi sento sollevata, sto bene: in fondo era un gran peso stare lì così. Mi guardo dall’alto, sono accasciata per terra, magra magra. Mi fa pena il mio corpo. Sento di non aver fatto tanto male per meritare tutto questo. Ma è come se mi fossi risvegliata da un incubo, come quando ci si sveglia il mattino essi dice: “meno male che era solo un sogno”. E se quella era la vita, era solo una parte della vita. Mi dispiace per il mio corpo, ma sento che devo andarmene, non ho più niente a che vedere con quel posto, voglio andare via per sempre”.
“Vai più avanti”.
“Mi sento sollevare sempre più in alto, non vedo più niente. Però ora ritrovo la fiducia, la speranza”.
Le chiedo perché ha dovuto vivere quell’esperienza, che cosa doveva capire.
“Dovevo distaccarmi dall’interesse per la materia. È la conseguenza della mia vita precedente, quella che ho vissuto a Parigi, nell’ottocento, in cui ero una specie di gagà, molto superficiale, preoccupato solo di essere elegante, raffinato: passavo ore a vestirmi perché gli altri mi guardassero. Mi interessavano solo le cose materiali, il lusso, la mia immagine, l’apparenza. Mi sono sposato con una bella donna solo per vanità e guardavo tutti con distacco e superiorità. Ma se vivi in questo modo ti porti un gran vuoto dentro, per capirlo dovevo passare attraverso l’esperienza drammatica del campo di concentramento, che ha ucciso la mia vanità.”
“Che cosa hai imparato?”
“A vedere tutto con più umiltà. Non devo essere così distaccata dagli altri, non devo sentirmi né inferiore né superiore, ma devo cercare di essere me stessa e di trovare un senso di comunione con gli altri. La cosa più importante è vivere responsabilmente, con la consapevolezza che si può anche sbagliare e ricominciare, con umiltà, lungo un cammino di evoluzione. Il mio compito attuale è vivere e pazientare, accettando le esperienze che io stessa ho richiamato con le mie azioni passate”.
Manuela Pompas –
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